Nuovi e vecchi farabutti in un clima che cambia
Nell’antica Repubblica di San Marco, ai piromani e a chi era sorpreso a tagliare un albero abusivamente, attentando al delicato equilibrio idrogeologico della laguna di Venezia, venivano inflitti quindici anni di esilio «da tutte le terre e i luoghi del serenissimo dominio» e ai recidivi sette anni di galera; erano considerati farabutti della peggior specie.
Se avessimo dovuto utilizzare la giustizia della Serenissima negli ultimi quaranta anni, le nostre carceri sarebbero piene di geometri, architetti, ingegneri, nonché di sindaci, assessori, con celle di isolamento per gli immobiliaristi, burattinai che han tirato i fili di un sistema che ha distrutto il paese e provocato migliaia di vittime per le conseguenze del dissesto idrogeologico.
Ma le carceri son piene di disgraziati, tutti gli altri son terrorizzati dall’immigrazione e son preoccupati di comprarsi la nuova casa vista mare o in qualche vallata montana non ancora completamente distrutta.
Strano vedere come è cambiato il concetto di farabutto.
L’Italia, nonostante presenti il 70% del territorio a rischio idrogeologico e quindi sia fragile di fronte alla crescita degli eventi estremi, conseguenza del cambiamento climatico è, tra i paesi sviluppati, il più arretrato nell’implementare politiche atte a ridurre l’emissione di gas climalteranti.
Gli eventi climatici estremi sono in forte crescita a livello mondiale, fondamentalmente a seguito dell’aumento dei “gas serra” e del conseguente incremento della temperatura media del pianeta. Oltre ai terremoti, frane e smottamenti, alluvioni, inondazioni e siccità sono i principali rischi e l’Italia è uno dei paesi europei a più elevato pericolo di catastrofi ambientali; la cementificazione del territorio ne ha accentuato la gravità, sia in termini di perdite di vite umane che in termini di danni economici, ma la stessa Italia,
o almeno parte di essa, continua a pensare che il cambiamento climatico
sia un passatempo da intellettuale. Non si può perder tempo con l’ambiente, è necessario riprendere la crescita, centrata, ancora e sempre, sulla ripresa dell’edilizia e sulle grandi infrastrutture, come se il territorio fosse infinito e si potesse continuare a costruire ville e villette, palazzi e palazzine, strade e autostrade.
Che diritto hanno di disintegrare un paese splendido, costruito con armonia e in armonia con il territorio? È evidente ormai a tutti coloro che hanno buon senso che ci si trovi ormai al 29° giorno, come nel famoso indovinello sulle ninfee nello stagno, utilizzato per spiegare ai bambini la crescita esponenziale. L’indovinello recita; in uno stagno c’è una foglia di ninfea. Ogni giorno che passa, il numero delle foglie si raddoppia: due foglie il secondo, quattro il terzo, otto il quarto e così via. La domanda che segue è: se lo stagno si ricopre interamente di foglie il trentesimo giorno, quando si
troverà coperto per metà? La risposta: il 29° giorno.
Il nostro paese, come più in generale l’intero pianeta è un grande stagno di ninfee; in molti si sono accorti di essere al 29° giorno e non agire di conseguenza è un atteggiamento criminale.
A Copenhagen il mondo si riunisce per cercare una difficile strada che consenta di evitare l’ultima drammatica crescita di foglie nello stagno, che porterebbe al soffocamento di chi ci vive.
Si parte da un punto morto, da quel famoso protocollo di Kyoto che non ha prodotto nessun risultato, visto che le emisisoni globali, rispetto al 1990, non solo non sono diminuite, ma anzi sono significativamente cresciute. E lo scenario di riferimento dell’Agenzia internazionale per l’energia (IEA), prevede che il consumo mondiale di energia primaria aumenti di circa l’1,7% all’anno nelle prossime tre decadi tra il 2000 e il 2030 a causa della crescita economica e demografica, con la conseguenza che le emissioni mondiali aumenteranno dell’1,8% all’anno fino a 38 miliardi di tonnellate nel 2030, il 70% sopra i livelli del 2000.
Il protocollo di Kyoto è stato siglato nel 1997 e, in quella città dei templi, l’aver raggiunto un accordo di principio sulla necessità di ridurre le emissioni era un grande risultato, veniva condiviso il problema e venivano fissati degli obiettivi. Oggi bisogna cominciare a togliere le foglie dallo stagno, non c’è più lo scellerato atteggiamento americano che per otto anni ha sabotato qualunque iniziativa concreta, e nonostante le resistenze siano ancora fortissime, forse per la prima volta, le premesse lasciano presagire la possibilità di raggiungere qualche risultato concreto.
Certo, non potranno essere accordi con entrata in vigore tra decenni, dovranno essere chiari, immediati e operativi. Si dovrà modificare il baricentro delle politiche mondiali: pensare di raggiungere obiettivi rilevanti senza modificare il paradigma economico di fondo sarebbe inutile e controproducente. Il protocollo di Montreal, siglato nel 1987 per la messa al bando dei clorofluorocarburi, reponsabili della stratificazione della fascia di ozono, ha dimostrato come sia possibile raggiungere risultati che sembravano difficilissimi (oggi infatti il famoso buco nell’ozono sta iniziando, anche se in misura impercettibile, a invertire la rotta e a ridursi). La riduzione delle emissioni di gas climalteranti è un obiettivo molto più difficile, sono quindi necessarie non solo misure tecnologiche, ma una nuova strategia fiscale che incida molto di più su tutti quei modelli di produzione e consumo ad alto impatto ambientale (dalle seconde case alle automobili, ai voli…).
Solo in questo modo il prossimo “protocollo di Copenhagen” avrà un senso, altrimenti lo stagno sarà inevitabilmente destinato a riempirsi e i responsabili non potranno nemmeno essere allontanati dall’impero o messi in galera, come veri, nuovi, grandi criminali di questa era dell’umanità.
Editoriale di Francesco Bertolini, Università Bocconi
Dalla rivista Arpa, n°4, luglio-agosto 2009